domenica 25 settembre 2011

Pellicce: industria assassina


"L'industria della pelliccia, come tutti sanno, è un'industria assassina che deve la sua esistenza al massacro sistematico di milioni e milioni di animali nel mondo. Anche quest'anno la moda autunno /inverno fa largo uso dei famigerati inserti di pelliccia applicati a giacconi, guanti e altri accessori.  Nei paesi dell'UE l'utilizzo di pellicce di cane e di gatto è vietato dal 2007 ma purtroppo sappiamo che queste pelli vengono ancora importate illegalmente (dalla Cina) e utilizzate  proprio per confezionare giacconi e quant'altro. Chi possiede una certa sensibilità, comunque non dovrebbe lasciarsi convincere ad indossare nessun capo di abbigliamento che contenga anche in minima parte pellicce di animali, indipendentemente se esse siano di cane , di gatto o di qualunque altra specie di animale; addirittura, a parer mio, non dovremmo indossare nemmeno pellicce sintetiche e questo per non creare equivoci  e  per  non contribuire in alcun modo - seppure in buona fede - alla sopravvivenza di questa moda criminale."
"Oldog" 
                           



Da www.oipa.org - Gabbie troppo piccole, freddo, condizioni igienico sanitarie inesistenti, stress da detenzione, paura, violenza, sofferenza: sono questi i principali elementi che caratterizzano la vita di milioni di animali, come volpi, ermellini, visoni, cincillà, conigli e tanti altri animali, allevati e fatti riprodurre con il solo scopo di ricavarne pellicce. Vittime sacrificali che hanno la sola colpa di avere un pelo folto, lucente e purtroppo ricercato dall’industria della moda. Perché sono proprio gli stilisti il principale motore di questo continuo e assurdo massacro. Coloro che “dettano legge” in quanto a eleganza, stile e tendenza hanno decretato che “la pelliccia fa couture”, agevolandone di fatto il ritorno dopo un lungo periodo di crisi del settore. Negli ultimi anni la pelliccia aveva infatti perso quel fascino che la contraddistingueva in termini di status symbol, fenomeno dovuto in gran parte al lavoro svolto dalle associazioni animaliste che hanno mostrato cosa effettivamente si nasconde dietro certi capi tanto desiderati da molte donne.

Tuttavia c’è ancora molto da fare visto che la minaccia più consistente arriva da Oriente. Il mercato ha infatti attivato altre soluzioni per dare nuova linfa al business, importando le pelli da Paesi caratterizzati da norme facilmente eludibili come la Cina, che fornisce circa l’11% della produzione mondiale di pelli di visoni, oltre 1,5 milioni di pelli di volpi, procioni e un numero incalcolabile di pelli di cane e gatto.
In questo Paese i nostri amati animali domestici vengono infatti uccisi per impiccagione o percosse, mutilati delle zampe e scuoiati quando spesso sono ancora coscienti, per diventare, ad esempio, la bordatura di un cappuccio, l’interno di una giacca o di un paio di guanti. Il consumatore è spesso inconsapevole di questo silenzioso massacro a causa di una fuorviante etichettatura dei capi che identifica il pelo di cane come gae-wolf, sobaki, o Asian jackal e quello di gatto come wildcat, goyangi o katzenfelle. La mobilitazione internazionale contro questa inumana pratica ha portato il Parlamento Europeo ad approvare, il 19 giugno 2007, il divieto all’importazione e al commercio di pelli di cane e gatti nei Paesi UE.
Certo, il bando europeo si propone in termini di notevole importanza, anche se non riesce a porre fine alle atrocità perpetrate in Cina, ma non solo, nel nome di “stile ed eleganza”. Nei corsi e ricorsi della moda le grandi case sartoriali cercano infatti di cancellare decenni di cultura animalista. Ecco quindi che, a ogni lancio delle nuove collezioni autunno-inverno, c’è sempre chi punta a reintrodurre l’uso della pelliccia sdogandola sottoforma di stole, mantelle, ponchos, coprispalle, colli, sciarpe, borse, cappelli, colbacchi, scaldamuscoli e guanti, cinture, fino ad arrivare a portachiavi e porta cellulari. Quella che altro non è se non la pelle di un povero animale, viene così inserita in oggetti legati al quotidiano, di fatto “normalizzandola”, allontana sempre più l’attenzione del consumatore dal percorso tragico che l’ha prodotta.

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